Dura Lex sed Lex. Riflessioni a margine della sentenza n. 32687/21 della 6^ Sezione della Corte Suprema di Cassazione.

Scritto da: Renato Grillo

di Renato Grillo 

Ultimamente le cronache giudiziarie, e non, sono state invase da commenti, più o meno appropriati, su una recentissima pronuncia della Corte Suprema di Cassazione (Sezione 6^ penale – sentenza n. 32687 del 17 giugno 2021, depositata il 2 settembre successivo) che, affrontando il tema degli atti osceni in luogo pubblico (in particolare su un convoglio ferroviario), ha rigettato il ricorso un cittadino italiano che il 28 giugno 2019 mentre si trovava a bordo del treno Novara – Treviglio si era masturbato dinnanzi ad una passeggera che aveva immediatamente segnalato il fatto alla Polizia Ferroviaria la quale aveva proceduto pressoché contestualmente ad arrestare l’uomo per atti osceni in luogo pubblico e resistenza a P.U. commessa in occasione del suo arresto.

La vicenda giudiziaria aveva visto l’uomo (per il quale l’arresto era stata convalidato soltanto per il reato di resistenza) processato con il rito abbreviato all’esito del quale il Giudice del Tribunale di Bergamo aveva condannato il predetto soggetto per il reato di resistenza a pubblico ufficiale ed assolto lo stesso dal reato di atti osceni in luogo pubblico di cui all’art. 527 comma 2 cod. pen. in quanto il fatto non era stato commesso in luogo abitualmente frequentato da minori, ancorché pubblico e, comunque, non sussisteva il pericolo che questi assistessero alla sua condotta.

A seguito del ricorso in Cassazione da parte del P.M. per violazione di legge quanto al delitto di atti osceni in quanto il treno andava ritenuto luogo frequentato abitualmente da minori, oltre che difetto di motivazione in ordine alla valutazione di flagranza del reato di cui all’art. 572 comma 2 cod. pen. al fine della convalida dell’arresto, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ritenendo il motivo della mancata flagranza assorbito dalla carenza di interesse in quanto comunque l’arresto era stato convalidato sia pure limitatamente al reato di resistenza a P.U.

Quanto al motivo principale del ricorso incentrato su una asserita violazione di legge – sempre in relazione al delitto di atti osceni – la Suprema Corte ha rigettato il ricorso in quanto ha ritenuto il treno luogo, sì pubblico, ma non abitualmente frequentato da minori con conseguente depenalizzazione del reato ai sensi dell’art. 2 lett. della Legge n. 7 del 2016 come già statuito dal Giudice di primo grado.[1]

In motivazione la Corte di legittimità ha richiamato numerosi precedenti in materia, ribadendo i principi di diritto già affermati dalla Corte Suprema secondo i quali «… per “luogo abitualmente frequentato da minori” non si intende un sito semplicemente aperto o esposto al pubblico dove si possa trovare un minore, bensì un luogo nel quale, sulla base di una attendibile valutazione statistica, la presenza di più soggetti minori di età ha carattere elettivo e sistematico»[2]; ed ancora che «l’interno di un vagone ferroviario in movimento per l’ordinario servizio viaggiatori non può essere ritenuto un luogo abitualmente frequentato da minori».[3]

La decisione in commento si connota quindi per una continuità interpretativa in materia di depenalizzazione del reato di atti osceni laddove il fatto avvenga in luogo pubblico (o aperto al pubblico) non abitualmente frequentato da minori, peraltro assenti nel caso di specie, senza che sussistesse il pericolo che minori potessero assistervi.

In disparte la non ortodossa decisione di rigetto, dovendo invece preferirsi la formula della inammissibilità (come peraltro richiesto dal Procuratore Generale nelle sue conclusioni scritte) sia in riferimento al primo motivo in quanto manifestamente infondato alla luce dei numerosi precedenti richiamati nella decisione, sia a maggior ragione in riferimento alla carenza di interesse conseguente alla avvenuta convalida dell’arresto sia pure con riguardo al più grave reato di resistenza a P.U., la sentenza, con motivazione fin troppo sintetica compendiata in meno di una pagina e costituita esclusivamente da un paio di richiami giurisprudenziali virgolettati, senza altre aggiunte, ad avviso di chi scrive, per un verso, non appare affatto esaustiva, limitandosi ad una apodittica e tralaticia esposizione di regole giurisprudenziali riportate in modo altrettanto sintetico e virgolettato, sicché si espone ad alcune critiche che verranno esposte qui di seguito.

Per altro verso, la sentenza sembra trascurare l’ipotesi, nient’affatto peregrina, del cd. “dolo eventuale”, posto che un soggetto il quale, intenzionato ad una esibizione sessuale, decida di salire a bordo di un mezzo pubblico di trasporto quale che esso sia (treno, autobus, metropolitana, etc.), accetta il rischio che minori possano esserci e ciò nonostante decide di mettere in mostra le proprie nudità ovvero si induce a compiere gesti sessuali inequivoci. E non si tratta di un pericolo presunto, ma di un pericolo concreto valutabile ex ante secondo le contingenze del momento in cui il fatto avviene.

Orbene, viste le ultime interpretazioni giurisprudenziali, e preso atto della probabile difficoltà per le persone prese da irrefrenabili impulsi di esibirsi sessualmente in luoghi pubblici ed all’aperto a causa dei prossimi rigori invernali pena un solenne raffreddore, ci si chiede se il fenomeno degli atti osceni in luogo pubblico meriti di stazionare ancora nel diritto penale vivente, una volta esclusa la possibilità (o probabilità da valutarsi ex ante) della presenza di minori ed il pericolo (da valutarsi in concreto) che costoro possano comunque assistere a tali sconci e disdicevoli episodi.

La masturbazione in pubblico comunque è – al di là di quanto possa avvenire tra le mura domestiche – un malvezzo abituale (non solo italiano) frutto verosimilmente dell’esibizionismo spinto agli eccessi, nella segreta speranza, magari, che qualcuno degli incauti spettatori si immedesimi nella situazione e si unisca al malcapitato autore di turno condividendone le esigenze del momento.

Ciò detto, in effetti qualcosa, nell’orizzonte legislativo, si muove nel tentativo di frenare il fenomeno e ripristinare il reato anche in presenza di adulti.

Il riferimento è ad un recente disegno di legge intitolato “Modifiche agli articoli 527 e 528 del codice penale in materia di atti osceni e pubblicazioni e spettacoli osceni”.[4]

Il testo della neo-disposizione, costituito da due soli articoli, è preceduto da una breve illustrazione in cui, richiamato l’art. 2 della legge di depenalizzazione 28 aprile 2014 n. 67, poi sfociata nel più noto d. lgs. n. 7/2016 (art. 2, commi 1 e 2), si sottolinea che le due fattispecie ormai non più costituenti reato, almeno in parte, costituiscono in realtà «condotte altamente disdicevoli e offensive del comune sentimento e dell’integrità morale personale, caratterizzate da un forte disvalore sociale, anche in relazione a persone adulte, che non può essere ignorato». Da qui l’avvertita esigenza di abrogare le disposizioni di depenalizzazione introdotte nel 2016 con ripristino delle precedenti sanzioni penali.

Il rinnovato interesse alla tematica oggetto d’analisi impone la necessità di soffermarsi più da vicino sull’excursus giurisprudenziale che l’ha riguardata a partire dagli inizi del 2016 sulla scia della legislazione di favore e proseguito, ma con alterne vicende, fino ai nostri giorni.

Le prime decisioni intervenute in materia si limitano ad una applicazione pressoché automatica della depenalizzazione senza alcun approfondimento degno di nota, parafrasando il testo normativo sopravvissuto alla riforma.

E’ il caso della sentenza che ha ispirato il presente scritto, nonché di altra precedente nella quale si parla di atti osceni all’interno di un vagone ferroviario in movimento e che sembra riecheggiare la sentenza oggi in commento.[5]

Molto più articolate, invece, le sentenze successive che mostrano di voler interpretare il testo normativo sulla base di considerazioni abbastanza analitiche e che meritano di essere riportate, sia pure in sintesi, a riprova del fatto che in realtà un problema esegetico esiste e va chiarito.

Particolarmente degna di nota la sentenza del 17 febbraio 2017 n. 29239 della 3^ Sezione della Cassazione – Sezione specializzata per i reati in ambito sessuale – in cui si espongono alcune considerazioni puntuali ed approfondite sulla questione relativa alla possibile determinazione dei luoghi abitualmente frequentate da minori; sulla specificità della fattispecie normativa e sul requisito del pericolo che integra, al pari della natura e destinazione (o vocazione) dei luoghi, la fattispecie incriminatrice.

La sentenza, dopo aver richiamato il testo normativo residuato come reato ed affermato, del tutto correttamente, che quella che un tempo era considerata circostanza aggravante ad effetto speciale, è oggi una autonoma fattispecie di reato, si sofferma approfonditamente sulla questione relativa alla individuazione dei luoghi abitualmente frequentati da minori, chiarendo anzitutto che l’indeterminatezza di indicazione da parte del legislatore era (ed è) un fatto voluto e ricordando poi che «nel corso dei lavori parlamentari, un emendamento soppressivo della disposizione in parola ne denunciava l’illegittimità costituzionale per difetto di tipicità».

Da qui la riflessione circa una individuazione appositamente lasciata aperta per l’interprete, senza alcun vulnus di incostituzionalità per indeterminatezza della fattispecie, tanto più che essa si caratterizza per la contemporanea e nient’affatto antinomica, presenza di due requisiti tra loro strettamente connessi: abitualità della frequenza di determinati luoghi da parte di minori e pericolo che minori possano assistervi: requisiti che danno sufficiente concretezza alla fattispecie.

Il percorso argomentativo si snoda attraverso una ricognizione dei possibili luoghi in cui si svolge la socialità dei minori, tenuto conto della ratio della disposizione consistente «nell’esigenza di tutelare, oltre che il comune senso del pudore, l’integrità morale dei minori in tutti i luoghi ove gli stessi abitualmente, non solo prevalentemente, si trovino», con una elencazione, ovviamente non tassativa, ma esemplificamente esaustiva dei possibili luoghi (a titolo meramente indicativo la sentenza parla di asili, scuole, luoghi di formazione fisica e culturale, luoghi prossimi agli edifici scolastici, recinti ricreativi all’interno dei parchi, impianti sportivi, oratori, ludoteche e simili), trattandosi di luoghi «immediatamente riconoscibili come tali e dove i minori assiduamente si recano», per vocazione strutturale.

Nel condivisibile e riuscito tentativo di conferire maggiore concretezza alla fattispecie, la Corte Suprema amplia la latitudine dei luoghi a quelli che siano tali per “elezione specifica”, in quanto costituenti «un punto di incontro nel quale i minori assiduamente si recano, ivi trattenendosi reiteratamente per un lasso di tempo non breve (muretto su una pubblica via, piazzali, pubblica via trasformata abitualmente in luogo ludico, cortile condominiale ove i minori si recano per socializzare e simili)».

Ma – come premesso – lo sforzo interpretativo della Corte si è esteso anche alla definizione della nozione di pericolo, considerato – al pari dei luoghi di frequenza abituale dei minori – elemento costitutivo della fattispecie, sottolineando che esso «non riguarda l’indistinta collettività, ma un suo sottoinsieme determinato dai soggetti minori, sulla base del presupposto che il luogo in cui la condotta viene consumata è abitualmente frequentato dagli stessi».

Ed ancora, la presenza di tale requisito nell’impianto normativo consente di selezionare adeguatamente i luoghi abitualmente frequentati da minori.

Dal testo della sentenza si evince che il pericolo va valutato in concreto e non in astratto, con ciò escludendo che si tratti di una fattispecie di pericolo presunto.

Ma è l’affermazione conclusiva, poi richiamata dalla sentenza in commento – quella cioè che vale a caratterizzare il reato nei suoi elementi essenziali – laddove la Corte di legittimità afferma, del tutto condivisibilmente e logicamente, che «In altri termini, il fatto di reato sussiste non perché accidentalmente agli atti osceni abbia assistito un minore, ma perché nel luogo prescelto dal suo autore per realizzarli è prevedibile (e non solo possibile), con giudizio prognostico ex ante, che siano presenti persone minori in quanto “abituate” a frequentarlo perché assiduamente ed appositamente in quel posto si recano o si incontrano».

Questo più che apprezzabile sforzo interpretativo dei giudici di legittimità esclude dunque la sussistenza del reato nell’ipotesi, come quella sottoposta al vaglio della Corte Suprema, di atti osceni compiuti in auto parcheggiata lungo la via pubblica cui aveva assistito una minore, laddove non venga chiarito con giudizio prognostico ex ante che si versa in un caso di luogo non riconoscibile come abitualmente frequentato da minori, non risultando sufficiente la occasionale presenza di minori al momenti del fatto per la integrazione della fattispecie.

Sul solco tracciato dalla S.C. si muove altra decisione n. 30798 depositata il 21 giugno 2017 della 3^ Sezione Penale della Cassazione, in cui si sottolinea l’esigenza di distinguere l’espressione di luogo “abitualmente frequentato da minori” proprio della attuale fattispecie penale dall’espressione similare, priva di rilevanza normativa per effetto della parziale abrogazione, di luogo “prevalentemente frequentato da minori”: la nozione di frequenza abituale è diversa e più rigorosa rispetto alla frequenza prevalente di minori, in quanto la abitualità implica una tendenza all’abitudine che non si rinviene nel concetto di prevalenza di natura squisitamente quantitativa.

Ed in effetti nella decisione suddetta di parla di espressione di contenuto più ampio che non consiste nella prevalenza numerica di una determinata categoria di frequentatori rispetto alle altre, ma di frequenza statistica assoluta di un certo luogo da parte di minori, evocandosi quindi termini quali “solitamente”; “sistematicamente”; “elettivamente”.

Che sia così lo si evince da un passo quanto mai significativo della decisione in cui si afferma che «affinché ricorra il predetto requisito della abitualità del luogo da parte dei minori……………è necessario che, sulla base di una attendibile valutazione statistica, sia altamente probabile che il luogo presenti la presenza di più soggetti minori di età».

Viene quindi dato spazio al concetto di probabilità elevata (che rasenta la certezza) rispetto al concetto di possibilità che costituisce un quid minus.

Decisamente significativa altra decisione della S.C. del 21 settembre 2017 n. 56075, sempre della 3^ Sezione penale, in cui si afferma in massima, a proposito della nozione di luoghi abitualmente frequentati da minori, che «Ai fini della sussistenza del reato di atti osceni di cui al secondo comma dell’art. 527 cod. pen., per “luogo abitualmente frequentato da minori” si intende non un sito semplicemente aperto o esposto al pubblico dove si possa trovare un minore, bensì un luogo nel quale, sulla base di una attendibile valutazione statistica, la presenza di più soggetti minori di età ha carattere elettivo e sistematico».

La decisione, che riprende le affermazioni contenute nelle sentenze n. 29239/17 e 30798/17, dianzi esaminate, appare particolarmente incisiva sulla interpretazione in concreto del luogo di frequenza abituale di minori individuato in un autobus della linea urbana/suburbana adibito al trasporto di persone di una grande città (Roma n.d.r.), abitualmente utilizzato (e dunque frequentato) da minori per gli spostamenti cittadini, rimarcandosi conclusivamente che, nel luogo prescelto dall’autore del reato per compiere il gesto osceno (mezzo di trasporto pubblico), il fatto-reato sussiste non tanto perché un minore vi abbia occasionalmente assistito, quanto perché nel luogo suddetto era prevedibile (e non solo possibile) la presenza di minori in quanto abituati a frequentarlo sulla base di un giudizio prognostico ex ante.

Questa decisione sembra quindi contrastare con la decisione in commento nel senso nella prima che il mezzo di trasporto pubblico viene considerato luogo in cui minori possono ritrovarsi abitualmente, mentre in quella n. 36287/21 il treno non viene considerato luogo di abituale frequenza e/o presenza di minori.

Le due decisioni che seguono, ancora più recenti, oltre a porsi in continuità interpretativa con quelle appena esaminate, si caratterizzano invece per alcune precisazioni chiarificatrici che valgono a rendere più comprensibile il significato della norma incriminatrice.

Nella sentenza della 3^ Sezione penale della S.C. n. 26080 del 22 luglio 2020 (il cui principio di diritto, per incidens, viene richiamato dalla decisione in commento), oltre a riprendere precedenti analoghe affermazioni della Corte Suprema in termini di luogo abitualmente frequentato da minori da intendersi non come luogo aperto o esposto al pubblico nel quale possa trovarsi un minore, ma come luogo in cui la presenza di minori, sulla base di una attendibile valutazione statistica, assuma carattere elettivo e sistematico (come accaduto nel caso sottoposto al vaglio della Corte Suprema costituito dal reparto di un ipermercato in cui si trovavano esposti oggetti per bambini), i giudici di legittimità escludono, in ragione della formulazione testuale della norma, il requisito della presenza di minori come elemento costitutivo della fattispecie, non richiesto dal legislatore, e sottolineano invece la necessità di una verifica puntuale con giudizio ex ante in ordine «alla significativa probabilità cella presenza di infradiciottenni nei luoghi precisati e al momento della condotta» non nécessita invece, in  ordine alla effettiva presenza dei minori, sicché il reato è integrato per il solo fatto che esso è commesso all’interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori, e se da ciò «deriva il pericolo che essi vi assistano».

Il pericolo suddetto viene analizzato come ulteriore ed indispensabile elemento strutturale della fattispecie che «serve ad escludere che il requisito della collocazione spaziale del fatto rilevi come fattore di rischio meramente astratto o presunto»: si tratta quindi di una nozione di pericolo concreto da valutarsi caso per caso, in modo da escludere dal novero della punibilità condotte realizzate in luoghi (o nelle loro immediate prossimità) frequentati abitualmente da minori quando la loro presenza venga valutata ex ante come improbabile (si fa l’esempio di una chiusura del luogo per ragioni disparate) e ricomprendere nell’area della incriminabilità condotte poste in essere  in quegli stessi luoghi quando vi sia una elevata probabilità – sempre da valutarsi in concreto e con giudizio ex ante – di afflusso di minori verso tali luoghi.

Viene quindi ribadita la necessità di una valutazione congiunta di due elementi strutturali (abitualità della frequenza di minori e pericolo che essi possano assistere alla condotta vietata dalla norma), sicché la presenza di uno solo di tali elementi non basta a ritenere penalmente rilevante la condotta vietata.

Va aggiunto che l’attuale impianto normativo, lungi dall’essere un modello di perfezionismo, porta alla conclusione che il minore che abbia assistito ad un atto osceno in luoghi diversi da quelli normativamente previsti, vedrà degradare il fatto ad illecito amministrativo come si afferma nella ricordata decisione n. 10025 del 7 febbraio 2017.

Sulla stessa lunghezza d’onda delle sentenze appena cennate si colloca altra, pressoché coeva, decisione della 3^ Sezione penale della Suprema Corte (sentenza n. 2903/21 dell’11 novembre 2020) in cui si ribadisce una volta di più la non necessità – non figurante nella norma – della effettiva presenza di minori ai fini della punibilità del fatto, bastando invece la ricorrenza del pericolo (concreto) che minori possano assistervi, ovviamente in luoghi abitualmente da essi frequentati sulla base di un giudizio di tipo probabilistico da effettuarsi ex ante e caso per caso.

In termini di discontinuità si colloca invece altra decisione di poco precedente emessa dalla Corte Suprema (unica nel suo genere)[6], nella quale, pur ribadendosi la necessità che ai fini della integrazione del reato occorre accertare che dal fatto derivi il pericolo che i minori assistano a tali atti, si afferma che ai fini della sussistenza del reato occorre che il giudice verifichi l’effettiva presenza, al momento del fatto la presenza di minori in uno dei luoghi indicati dalla norma, non essendo necessario che uno o più di essi abbiano assistito al compimento di detti atti, essendo sufficiente il pericolo che ciò accada.

Il principio di diritto affermato dalla Corte sembra dunque escludere che, una volta accertata l’assenza di minori in uno dei luoghi indicati (genericamente) dalla norma, va parimenti ritenuto insussistente il pericolo che i minori possano assistere all’atto osceno.

Tale isolata decisione, alla luce dei principi diffusamente esposti nelle sentenze precedenti, appare in contrasto con il precedente consolidato orientamento e presta il fianco a possibili equivoci interpretativi assolutamente da evitare su un tema continuamente all’attenzione dell’opinione pubblica che invece sembra orientarsi in senso favorevole ad un ripristino della disposizione abrogata.

Conclusioni

Fin qui, dunque, il lungo percorso interpretativo della Suprema Corte che non pare, però, caratterizzare la decisione in commento la quale, pur ponendosi in continuità interpretativa con l’orientamento prevalente, risulta priva di quei requisiti di analiticità, chiarezza e precisione che una decisione di legittimità deve pure possedere, non foss’altro perché destinata ad essere letta da una massa indifferenziata di persone che potrebbe essere fuorviata da interpretazioni superficiali, prive di quel substrato fattuale-argomentativo necessario per una adeguata comprensione da parte di chi non abbia sufficiente dimestichezza con nozioni di diritto penale.

Infatti nella sentenza in commento nulla viene detto in ordine all’orario dei fatti; al contesto spazio-temporale in cui essi sono stati commessi e risulta non adeguatamente esposto il giudizio prognostico ex ante ed in concreto sulla idoneità dei luoghi sede del reato.

Peraltro la sentenza in commento si limita a dare conto di alcuni principi di diritto affermati in precedenza, oltretutto condivisibili, senza aggiunta di alcun pur minimo e doveroso commento atto ad evitare che l’interpretazione adottata, sulla carta corretta, fuorviasse la pubblica opinione.

In effetti la norma incriminatrice oggi presente nel nostro codice di rito è il risultato di una recepita inclinazione da parte del legislatore ad assecondare un orientamento della società diretto a minimizzare le condotte penali in casi giudicati come trascurabili in aderenza a quello spirito di riforma del codice penale cd. “minimo”.

Come è noto, la configurazione legislativa della fattispecie di atti osceni – fondata sul concetto di “comune sentimento del pudore” (art. 529 c.p.) – e l’interpretazione giurisprudenziale che ne è seguita nel tempo hanno segnato una costante e progressiva evoluzione legata al mutamento del costume e del sentire sociale.

Si parla, ben a ragione, di una tendenza da parte della giurisprudenza, alla reinterpretazione, in chiave moderna, della tutela penale del pudore, nel senso che la portata offensiva della condotta prevista dal legislatore è stata via via adattata al contesto ambientale in cui essa si manifesta.

Da qui l’affermazione di un principio, ormai consolidato e recepito dalla generalità dei consociati in virtù del quale l’offesa al bene protetto dalla norma (il sentimento del pudore) viene a cessare, indipendentemente dalla percepibilità da parte di una generalità di persone,  quando il comportamento dell’agente è visibile soltanto da parte di un ristretto numero di persone preventivamente determinate, le quali, piuttosto che corrispondere alla sensibilità media, mostrano di accettare o addirittura gradire la visione di atti di valenza erotica come traspare da una risalente sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione[7] n. 5 e da una precedente pronuncia della Corte Costituzionale[8] n. 368 del 27 luglio 1992.

Il bene protetto sembra così assumere la valenza di bene di natura personale, e non più collettivo, da intendersi come diritto a non essere molestati da manifestazioni invasive di sessualità esplicita che va salvaguardato da intrusioni sgradite intrusioni sgradite come affermano autorevolmente alcuni autori.[9]

Questo percorso evolutivo si è ulteriormente sviluppato, trovando una sponda nel legislatore, che, proprio attraverso le innovazioni apportate dalla legge n. 94/2009 (c.d. pacchetto sicurezza), ha in individuato il baricentro dell’incriminazione nell’esigenza di protezione di talune tipologie di ‘vittime deboli’ prevedendo una specifica circostanza aggravante in caso di fatti commessi in danno di “persona portatrice di minorazione fisica, psichica o sensoriale”.

La legge di depenalizzazione del 2016 costituisce la parte finale di questo percorso evolutivo e progressivamente scriminalizzante, culminato nella degradazione del reato di atti osceni in luogo pubblico a semplice (ancorché costoso) illecito amministrativo, mantenendo intatta la punibilità penale del fatto solo a quelle condotte lesive dei diritti dei minori, nell’interesse della massima salvaguardia di costoro qualificati (e qualificabili) soggetti deboli per definizione.

Si dirà ancora che la trasformazione del reato in illecito amministrativo con contestuale previsione di un ampio ventaglio di sanzioni pecuniarie non certo trascurabili (da un minimo di € 5.000,00 ad un massimo di € 30.000,00), induce a ritenere queste sostanzialmente inefficaci, considerata la platea dei possibili autori, quasi sempre appartenenti da un ceto sociale di rango molto modesto che fa apparire come davvero residuale la possibilità che tali soggetti possano pagare tali somme.

Ma – come si è precedentemente rilevato – questa tendenza evolutiva alla trasformazione progressiva dell’illecito penale in amministrativo non toglie che determinate condotte aprioristicamente considerate gravi dal legislatore nel nome della tutela dei soggetti fragili, meritino ancora di trovare ingresso nel nostro codice penale in modo da distinguere nettamente il fatto di minima rilevanza (come il caso degli atti osceni in luogo pubblico che possono assumere manifestazioni eterogenee, come l’orinare per strada, magari in un angolo riparato, un tempo considerate penalmente riprovevoli) da quello che tale non è in quanto coinvolge interessi meritevoli di un’ampia tutela.

Lamentare l’indeterminatezza della norma e/o la sua incostituzionalità non sembra corretto, in quanto la Suprema Corte si è quasi sempre sforzata (tranne, forse, in una primissima fase e “a caldo” dopo la riforma del 2016) di dare un significato alla norma ed un assetto accettabile dal punto di vista strettamente giuridico.

Se è vero che a prima vista la norma penale vigente sembra priva di chiarezza, va subito detto che la giurisprudenza di legittimità sviluppatasi dopo la legge di depenalizzazione è riuscita a supplire ad alcune incertezze interpretative fornendo una lettura, costituzionalmente orientata e coerente con i principi del diritto penale, oltre che sufficientemente precisa nel linguaggio adoperato, della norma repressiva, tenendo ben presente l’importanza del tema in discussione.

Il difetto della sentenza in commento sta proprio nella mancanza di analiticità e di specificità che avrebbe dovuto e potuto aiutare il lettore comune nella comprensione del fatto nella sua effettiva portata.

Tuttavia non può neanche dirsi che la sentenza sia bizzarra o pericolosa, in quanto essa si limita a recepire una riforma voluta dal nostro legislatore in nome del popolo italiano: semmai può rimproverarsi al legislatore di non avere saputo cogliere la reale volontà del popolo che – a stare ai commenti apparsi di recente – continua a censurare condotte di tal fatta sia che si compiano in danno di minori, che in danno di adulti. L’iniziativa legislativa del Senato di cui si è dato conto in precedenza sembra voler dare un calcio al presente e virare verso un ritorno al passato.

Con la sentenza in commento è probabilmente stato compiuto un grande passo indietro (in relazione alla estrema sinteticità spinta al mero richiamo virgolettato di un paio di principi di diritto affermati in sentenze precedenti, laddove sarebbe stata indispensabile una maggiore chiarezza espositiva ed una argomentazione più articolata che desse conto al comune lettore del contesto fattuale, temporale e spaziale in cui il fatto è avvenuto) ed un piccol(issim)o passo in avanti, nella misura in cui si è proseguiti, ma senza ricchezza di argomentazioni, nel percorso molto più autorevolmente e convincentemente tracciato da precedenti decisioni, oltretutto emesse da una Sezione Penale della Corte Suprema specializzata in tale genere di reati.

Ed allora quid iuris?

E’ proprio il caso di dire, una volta preso atto dell’excursus normativo e giurisprudenziale dianzi esaminato a proposito di adulti e minori: Dura Lex, sed Lex.

 

Renato Grillo, già Consigliere della Corte Suprema di Cassazione

 

[1]
[1] Cass., Sez. 6^ Pen.  n. 32687 del 17 giugno 2021, depositata il 2 settembre 2021, non massimata, oggi in commento.
[2]
[2] Cass. Sez. 3^ Pen. n. 26080 del 22 luglio 2020.
[3]
[3] Cass. Sez. 3^ Pen. n. 24108 del 21 luglio 2016.
[4]
[4] A.S. 680 presentato in Senato il 18 luglio 2018, assegnato in sede redigente alla 2^ Commissione permanente (Giustizia) il 28 settembre 2018, ma per il quale non è ancora iniziato l’esame.
[5]
[5] Cass. Sez. 3^ Pen. 21 luglio 2016 n. 24108, depositata l’1 marzo 2017, anche questa non massimata.
[6]
[6] Cass. Sez. 3^ pen. 20 settembre 2019, n. 43542
[7]
[7] Cass. S.U. pen. n. 5 del 24 marzo 1995.
[8]
[8] Corte Cost., n. 368 del 27 luglio 1992.
[9]
[9] G. Fiandaca, Problematica dell’osceno e tutela del buon costume, Padova, 1984; G. Mazzanti, La giurisprudenza sugli atti osceni, tra tensioni interpretative ed esigenze di riforma, in Cass. pen., 2012, p. 2751 ss.